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      Diciannove barricate si schieravano nella profonditą delle vie, dietro quella barricata madre. Al solo vederla, si sentiva che nel sobborgo l'immenso dolore agonizzante era giunto a quell'estremo attimo in cui un'angoscia vuol divenire una catastrofe. E di cos'era fatta quella barricata? Del crollo di tre case da sei piani, demolite appositamente, dicevan gli uni; del prodigio di tutte le collere, dicevan gli altri. Aveva l'aspetto pietoso di tutte le costruzioni dell'odio: la rovina; si poteva tanto dire: Chi l'ha costruita? come si poteva dire: Chi l'ha demolita? Era l'improvvisazione del subbuglio. To'! Ecco una porta! Ecco un cancello! Ecco una tettoia! Ecco uno stipite! Un fornello rotto! Una pignatta incrinata! Date tutto, gettate dentro tutto! Spingete, rotolate, vangate, smantellate, sconvolgete, abbattete tutto! Vi si vedeva la collaborazione del sasso del lastrico, della pietra da taglio, della trave, della sbarra di ferro, del cencio, del vetro spezzato, della sedia spagliata, del torso di cavolo, del brandello, dello straccio e della maledizione. Era grande e piccola: era l'abisso, parodiato localmente dalla gazzarra, colla massa vicino all'atomo e il lembo di muro asportato vicino alla scodella rotta; era l'affratellamento minaccioso di tutti i rottami. Sisifo vi aveva gettato il suo masso e Giobbe il suo coccio. Insomma, terribile. Era l'acropoli dei pezzenti. Alcune carrette ribaltate accidentavano la scarpata e un immenso carro era stato collocato di traverso, coll'asse verso il cielo, cosģ da parere una cicatrice su quella tumultuosa facciata; un omnibus, allegramente issato a forza di braccia proprio sulla sommitą di quell'ammasso, come se gli architetti di quella selvaggia costruzione avessero voluto aggiungere la monelleria allo spavento, offriva il timone staccato a chissą quali cavalli dell'aria.


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I miserabili
di Victor Hugo
pagine 1886

   





Giobbe