Quel muro era costruito colle pietre del lastrico: era diritto, preciso, freddo, perpendicolare, livellato colla squadra, allineato colla funicella, rettificato col filo a piombo. Certo mancava il cemento; ma, come avviene in alcuni muri romani, ciò non turbava la sua rigida architettura. Dalla sua altezza s'indovinava lo spessore. Il cornicione era rigidamente parallelo allo zoccolo; si distinguevano a intervalli regolari, sulla superficie scura, alcune feritoie quasi invisibili, che parevano fili neri. La via era deserta a perdita d'occhio; tutte le finestre e tutte le porte erano chiuse. In fondo s'ergeva quello sbarramento, che faceva della via un vicolo; muro immobile e tranquillo, dietro al quale non si scorgeva nessuno e non si sentiva nulla: non un grido, non un rumore, non un alito. Un sepolcro.
Lo sfolgorante sole di giugno inondava di luce quella cosa terribile.
Era la barricata del sobborgo del Tempio.
Appena si arrivava sul posto e la si scorgeva, era impossibile, anche ai più coraggiosi, non riflettere al cospetto di quella misteriosa apparizione. Tutto in essa era in ordine, ben connesso e ben sovrapposto, rettilineo, simmetrico e macabro. V'erano in quell'opera scienza e oscurità; si intuiva che il capo di quella barricata era un geometra o uno spettro. Tutti la guardavano e parlavano a bassa voce.
Di tanto in tanto, se qualcuno, soldato, ufficiale o rappresentante del popolo, s'arrischiava ad attraversare la via solitaria, si sentiva un fischio acuto e debole e il passante cadeva, ferito o ucciso; oppure, se riusciva a sfuggire, vedeva sprofondare in qualche imposta chiusa, nell'intervallo fra due pietre o nell'intonaco d'un muro, una palla e talvolta una scheggia di mitraglia; poiché gli uomini della barricata, con due mozziconi di tubi del gas, di ghisa, tappati ad un'estremità con stoppa e terra refrattaria, s'eran fatti due cannoncini.
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Tempio
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