«Cos'è il gatto?» esclamava. «È un correttivo. Il buon Dio, avendo fatto il sorcio, disse: 'To'! Ho fatto una bestialità!' E creò il gatto, che è l'errata-corrige del sorcio. Il sorcio, più il gatto, è la bozza riveduta e corretta della creazione.»
Combeferre, circondato da studenti e operai, parlava dei morti, di Jean Prouvaire, di Bahorel, di Mabeuf ed anche di Le Cabus, e della severa tristezza d'Enjolras; e diceva:
«Armodio e Aristogitone, Bruto, Cherea, Stefano, Cromwell, Carlotta Corday, Sand hanno avuto tutti, dopo il colpo, il loro momento d'angoscia. Il nostro cuore è tanto agitato e la vita umana è un tal mistero, che, perfino in un assassinio civico, in un assassinio liberatore, dato che ve ne siano, il rimorso d'aver colpito un uomo supera la gioia d'aver servito il genere umano.»
E poiché tali sono i meandri dello scambio di parole, un minuto dopo, per un'associazione d'idee venuta dai versi di Jean Prouvaire, Combeferre paragonava fra loro i traduttori delle Georgiche, Raux con Cournand e Cournand con Delille, accennando ai pochi passi tradotti da Malfilâtre, particolarmente quello dei prodigi della morte di Cesare; e da quella parola, Cesare, il discorso tornava a Bruto.
«Cesare,» diceva Combeferre «cadde giustamente. Cicerone fu severo con Cesare, ed aveva ragione; questa severità non va confusa colla diatriba. Quando Zoilo insulta Omero, quando Mevio insulta Virgilio, quando Visé insulta Molière, quando Pope insulta Shakespeare, quando Fréron insulta Voltaire si attua una grande legge d'invidia e d'odio: i genî attirano l'ingiuria ed i grandi uomini sono sempre più o meno perseguitati dai latrati.
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