Poi raccolse il paniere, vi rimise, senza perderne una, le cartucce che ne eran cadute e, avanzando verso la fucileria, andò a spogliare un'altra giberna. Là, una quarta palla lo sbagliò ancora, e Gavroche cantò:
Se io non son notaio,
La colpa è di Voltaire;
Se sono un vagabondo,
La colpa è di Rousseau.
Una quinta palla riuscì solo a cavargli fuori una terza strofa.
Io son d'umore allegro,
La colpa è di Voltaire,
Ma son sempre in miseria,
La colpa è di Rousseau.
La cosa continuò per qualche tempo.
Lo spettacolo era spaventevole e meraviglioso. Gavroche, preso a fucilate, si faceva beffe della fucileria. Aveva l'aria di divertirsi un mondo; era il passero che piglia a beccate i cacciatori, e rispondeva ad ogni scarica con una strofa. Lo prendevano di mira senza posa e lo sbagliavan sempre; le guardie nazionali e i soldati ridevano, mentre gli puntavano contro le armi. Egli si buttava a terra, poi si rialzava, spariva nel vano d'una porta, poi balzava fuori e spariva per riapparire, svignarsela e tornare, ribattendo alla mitraglia con un palmo di naso, mentre continuava a saccheggiare le cartucce, a vuotar le giberne ed a riempire il paniere. Gli insorti, anelanti e ansiosi, lo seguivano collo sguardo. La barricata tremava; egli cantava. Non era un fanciullo, non un uomo: era uno strano monello incantato. Lo si sarebbe detto il nano invulnerabile della mischia. Le palle gli correvano dietro, ma egli era più svelto di esse; giocava un non so quale spaventoso gioco a rimpiattino colla morte e, ogni qual volta la faccia camusa dello spettro s'avvicinava, egli le dava un buffetto.
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