Stese un braccio, poi l'altro, e toccò il muro da ambo le parti, riconoscendo in tal guisa che il corridoio era stretto; scivolò, accorgendosi così che il pavimento era bagnato. Allungò un piede con precauzione, temendo un buco, uno smaltitoio, qualche voragine, e constatò che la pavimentazione si prolungava: una zaffata fetida l'avvertì del luogo in cui si trovava.
In capo a pochi istanti, non era più cieco. Un po' di luce pioveva dallo spiraglio dal quale s'era calato e il suo sguardo s'era avvezzo a quella cantina. Cominciò a distinguere qualche cosa. Il corridoio nel quale si era sotterrato (non v'è altra parola che dipinga meglio la situazione) era murato alle sue spalle; era uno di quei vicoli che il gergo chiama ramo morto; davanti a lui, v'era un altro muro, un muro di tenebre. La luce dello spiraglio moriva a dieci o dodici passi dal punto in cui stava Jean Valjean e spandeva a stento un biancore scialbo su pochi metri della parete umida della fogna. Al di là, l'opacità era greve: penetrarvi sembrava orribile e l'entrata pareva aperta ad inghiottire. Eppure, si poteva immergersi in quella muraglia di nebbia, e bisognava farlo. Bisognava anzi affrettarsi; e Jean Valjean pensò che quell'inferriata, scorta sotto le pietre, poteva esserlo pure dai soldati, e che tutto dipendeva da quel caso. Potevano anch'essi scendere in quel pozzo e frugarlo. Non v'era un minuto da perdere; raccolse (è la parola) Mario da terra, dove l'aveva deposto, se lo mise sulle spalle e riprese il cammino, entrando risolutamente in quella oscurità.
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Jean Valjean Jean Valjean Mario
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