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      Stavolta, non era una luce terribile, ma buona e candida: era quella del sole.
      Jean Valjean vedeva l'uscita.
      Un'anima dannata che, nel mezzo della fornace, scorgesse all'improvviso l'uscita della geenna, proverebbe quello che provò Valjean: volerebbe follemente col suo mozzicone d'ali bruciate verso la porta radiosa. Valjean non sentì più la stanchezza, non più il peso di Mario; ritrovò i suoi garretti d'acciaio e corse, più che non camminasse. A mano a mano che s'avvicinava, l'uscita si disegnava sempre più distintamente. Era un arco a tutto sesto, meno alto della vôlta, la quale andava restringendosi gradatamente, e meno largo della galleria, che si faceva più stretta col progressivo abbassarsi della vôlta. Il condotto finiva internamente ad imbuto; vizioso restringimento, imitato dalle porticine delle case di pena, logico in una prigione, ma illogico in una fogna, e che in seguito venne corretto.
      Jean Valjean giunse all'uscita. Là, si fermò.
      Era l'uscita, infatti; ma non si poteva uscire.
      L'arcata era chiusa da un robusto cancello, il quale, secondo tutte le apparenze, girava raramente sui gangheri ossidati ed era assicurato allo stipite di pietra da una serratura massiccia che, arrossata dalla ruggine, pareva un enorme mattone. Si vedeva il buco della serratura e il solido maschio profondamente immerso nella toppa; probabilmente, la serratura era chiusa a doppia mandata. Era una di quelle serrature da fortezza, di cui la vecchia Parigi era volentieri prodiga.
      Al di là del cancello, v'erano l'aria aperta, la luce, il fiume, la riva strettissima, ma sufficiente per andarsene, i lungo Senna lontani, Parigi, quella voragine in cui ci si nasconde tanto facilmente, l'orizzonte ampio, la libertà. Si distingueva a destra, a valle, il ponte di Iena e a sinistra, a monte, il ponte degli Invalidi; ed il luogo sarebbe stato propizio per attendere la notte ed evadere.


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I miserabili
di Victor Hugo
pagine 1886

   





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