Valjean era passato da uno scoglio all'altro. Quei due incontri uno dopo l'altro, quel cadere da Thénardier a Javert, era difficile.
Javert non riconobbe Jean Valjean che, come abbiam detto, non rassomigliava più a se stesso. Rimase colle braccia incrociate e, dopo essersi assicurata la mazza in pugno con un gesto impercettibile, chiese con voce calma e breve:
«Chi siete?»
«Io.»
«Chi, voi?»
«Jean Valjean.»
Javert mise la mazza fra i denti, piegò i garretti, chinò il busto, posò sulle spalle di Valjean le sue mani possenti, adattandovele come in due morse, l'esaminò e lo riconobbe. I loro visi, quasi si toccavano; lo sguardo di Javert era terribile.
Valjean rimase inerte sotto la stretta di Javert, come un leone che acconsentisse ad esser ghermito dall'artiglio d'una lince.
«Ispettore Javert,» disse «sono in mano vostra. Del resto, fino da stamattina mi considero come vostro prigioniero; né vi ho dato il mio indirizzo per cercare di sfuggirvi. Prendetemi: solo, accordatemi una cosa.»
Pareva che Javert non sentisse. Egli teneva su Valjean fisso lo sguardo, mentre il mento corrugato spingeva le labbra verso il naso, indizio di gravi pensieri; infine, lasciò andare Valjean, si rizzò tutto d'un pezzo, ragguantò coi pugni stretti la mazza e, come in un sogno, mormorò, più che non profferisse, questa domanda:
«Che fate qui? E che vuol dire quell'uomo?»
Continuava a non dare del tu a Jean Valjean. Questi rispose, e il tono della voce di lui parve risvegliare Javert:
«Volevo per l'appunto parlarvi di lui.
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