Ma parlate, dunque! Mi lasciate parlare da sola. Stiamo sempre di casa in via Homme-Armé. M'hanno detto che la vostra spalla metteva spavento, che vi poteva entrar dentro un pugno chiuso; e poi, mi pare che v'abbian tagliato la carne colle forbici. Che cosa spaventosa! Ho pianto tanto, che non ho più occhi: è sciocco che si possa soffrire così. Che aria buona ha il vostro nonno! Non vi muovete, non appoggiatevi sul gomito, state attento, che vi farete male. Oh, come sono felice! Dunque, la disgrazia è finita! Come sono istupidita! Volevo dirvi delle cose che non ricordo più. Mi amate sempre? Abitiamo in via Homme-Armé; non c'è giardino. Ho fatto filacce tutto questo tempo. Guardate, signore, guardate: è colpa vostra questo callo al dito.» «Angelo!» diceva Mario.
Angelo è la sola parola della lingua che non possa logorarsi; nessun'altra resisterebbe allo spiccato impiego che ne fanno gli innamorati.
Poi, siccome v'erano persone presenti, s'interruppero e non dissero più nulla, limitandosi a toccarsi dolcissimamente le mani.
Gillenormand si volse verso tutti coloro ch'erano nella camera e gridò:
«Parlate forte, voialtri! Fate baccano, signori del pubblico! Suvvia, un po' di chiasso, diavolo! In modo che questi ragazzi possano chiacchierare a loro agio.»
E, avvicinandosi a Mario ed a Cosette, disse loro a bassa voce:
«Datevi del tu; non state in soggezione.»
La zia Gillenormand assisteva con stupore a quell'irruzione di luce nel suo interno vecchiotto. Quello stupore non aveva nulla di aggressivo e non era per nulla lo sguardo scandalizzato e invidioso d'una civetta a due colombi; era l'occhiata istupidita d'una povera innocente cinquantenne, era la vita mancata che contemplava quel trionfo che è l'amore.
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