La precede Baccano e la segue Gazzarra; vi si vocifera, si fanno vocalizzi, si urla, si scoppia e ci si torce dalla felicità; rugge l'allegria, fiammeggia il sarcasmo e la giovialità si spiega come una porpora. Due rozze trascinan la farsa che si espande fino all'apoteosi: è il carro di trionfo del Riso.
Un Riso troppo cinico, perché sia franco. E infatti, esso ha una missione; è, cioè, incaricato di provare ai parigini il carnevale.
Quei triviali veicoli, in cui s'intuisce un non so che d'oscuro, fanno pensare il filosofo. V'è il governo, in essi, e si tocca col dito un'affinità misteriosa fra gli uomini pubblici e le donne pubbliche.
Che le turpitudini sociali diano un totale d'allegria, è triste; è triste che sovrapponendo l'ignominia all'obbrobrio si alletti un popolo, che lo spionaggio messo a fare da cariatide alla prostituzione diverta le brigate che affronta, che la folla si diverta a veder passare sulle quattro ruote d'una carrozza da piazza quel mostruoso mucchio vivente, orpello e cencio, mezzo sudiciume e mezza luce, che abbaia e canta; è triste che si battan le mani a quella gloria fatta di tutte le vergogne e non vi siano feste per le moltitudini, se non v'è la polizia a far passeggiare in mezzo ad esse quelle specie di idre d'allegria a venti teste. Ma che farci? Quelle carrette di fango coperto di nastri e di fiori sono insultate ed amnistiate dalla pubblica risata, poiché la risata di tutti è complice della degradazione universale. Certe feste malsane disgregano il popolo e lo fanno popolaccio; ed ai popolacci, come ai tiranni, occorrono i buffoni; il re ha Roquelaure, il popolo ha Pagliaccio.
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