Avrebbe condiviso le sorti di Cosette e di Mario? Avrebbe resa più folta l'oscurità sulla propria fronte e posata la nube sopra di essi? Avrebbe congiunto alle loro felicità la sua catastrofe? Avrebbe continuato a tacere? In una parola, sarebbe stato, vicino a quei due esseri felici, il sinistro mutismo del destino?
Occorre esser avvezzo alla fatalità ed ai suoi incontri per osare alzar gli occhi quando taluni problemi ci appaiono in tutta la loro orribile nudità: il bene o il male sono dietro quel severo punto interrogativo. «Cosa farai?» chiede la sfinge.
Quest'abitudine della prova, Valjean l'aveva, guardò fisso la sfinge, ed esaminò lo spietato problema in tutte le sue facce.
Cosette, quell'incantevole esistenza, era la zattera di quel naufrago. Che fare? Aggrapparvisi, o lasciarla andare?
Se vi si fosse aggrappato, sarebbe uscito dal disastro, sarebbe risalito alla luce del sole, avrebbe lasciato scorrere dai suoi panni e dai suoi capelli l'acqua amara, si sarebbe salvato, avrebbe vissuto. E se avesse abbandonato la stretta?
In tal caso, l'abisso.
Egli andava così tenendo dolorosamente consiglio con se stesso; o, per dir meglio, andava combattendo e si scagliava furioso, dentro di sé, ora contro la sua volontà, ora contro la sua convinzione.
Fu una fortuna per Valjean aver potuto piangere, poiché, forse, ne fu illuminato. Eppure il principio fu crudele. Una tempesta, più furiosa di quella che l'aveva spinto un tempo verso Arras, si scatenò in lui; il passato si riaffacciava di fronte al presente: egli li paragonava e singhiozzava.
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