Le candele bruciate fino in fondo aggiungevano ai cristalli dei lampadari stalattiti di cera. Non tutto era al suo posto; negli angoli, tre o quattro poltrone, accostate a cerchio, avevano l'aria di continuare una conversazione. L'ambiente era ridente, rimane ancora una certa grazia in una festa morta: là è passata la felicità; su quelle sedie in disordine, in mezzo a quei fiori che appassiscono, sotto quei lampadari spenti, si è pensato alla gioia. Il sole, sostituendo il lampadario, entrava allegramente nel salotto.
Passarono parecchi minuti. Valjean era rimasto immobile nel punto in cui Basco l'aveva lasciato, pallidissimo, gli occhi incavati e talmente sprofondati sotto l'orbita dall'insonnia, che quasi vi scomparivano. La sua giubba nera aveva le stazzonature d'un vestito che ha fatto la nottata, bianca sui gomiti, di quella peluria che lascia sulla stoffa lo sfregamento contro la biancheria. Egli contemplava ai suoi piedi la finestra disegnata dal sole sull'impiantito.
Sentì un rumore alla porta, ed alzò gli occhi.
Mario entrò, a testa alta, la bocca ridente, una luce diffusa sul volto, la fronte spianata e lo sguardo trionfante. Neppur lui aveva dormito.
«Siete voi, babbo!» esclamò, scorgendo Valjean. «E quello sciocco di Basco aveva un'aria misteriosa! Ma voi giungete troppo presto; son soltanto le dodici e mezzo, e Cosette dorme.»
Quella parola: Babbo, detta a Fauchelevent da Mario, significava la felicità suprema. Com'è noto, v'eran sempre stati distacco, freddezza e soggezione fra loro, v'era sempre stato un ghiaccio da rompere o da fondere; ora, Mario era a quel punto dell'ebbrezza che annulla il distacco e dissolve il ghiaccio; e Fauchelevent era per lui, come per Cosette, un padre.
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