Ecco perché sono venuto a raccontarvi tutto questo, a cuor leggero, come dite voi.»
      Respirò con fatica e buttò lì quest'ultima frase:
      «Un tempo, per vivere, ho rubato un pane; oggi, per vivere, non voglio rubare un nome.»
      «Per vivere?» interruppe Mario. «Ma voi non avete bisogno di quel nome, per vivere.»
      «Oh, so io quel che voglio dire!» rispose Jean Valjean, alzando ed abbassando la testa più volte di seguito.
      Vi fu una pausa. Entrambi tacevano, ognun d'essi immerso nel profondo dei suoi pensieri; Mario s'era seduto vicino ad un tavolo ed appoggiava un angolo della bocca sopra un dito ripiegato, mentre Jean Valjean andava e veniva. Si fermò davanti a uno specchio e rimase immobile; poi, come se rispondesse ad un ragionamento interiore, disse, guardando quello specchio in cui non si scorgeva neppure:
      «Invece ora sono sollevato.»
      Si rimise a camminare e giunse all'altra estremità del salotto. Nel momento in cui si voltava, s'accorse che Mario lo guardava camminare, allora gli disse, con un accento inesprimibile:
      «Strascico un po' la gamba. Ora potete capire perché.»
      Poi finì di voltarsi verso Mario.
      «Ed ora, signore, immaginate una cosa: ch'io non abbia detto nulla, che sia rimasto il signor Fauchelevent, ed abbia preso il mio posto vicino a voi. Io sono dei vostri, nella mia camera, vengo a far colazione in pantofole, la mattina e di sera andiamo a teatro tutt'e tre; accompagno la signora Pontmercy alle Tuileries e in Piazza Reale, siamo insieme e mi credete un vostro simile, quando, un bel giorno, mentre io e voi siamo presenti, discorriamo e ridiamo, sentite ad un tratto una voce che grida questo nome: Jean Valjean! ed ecco che la mano spaventosa della polizia esce dall'ombra e mi strappa bruscamente la maschera!