«E ora che sapete tutto, credete, signore, voi che siete il padrone, che non debba più vedere Cosette?»
«Credo che sarebbe meglio,» rispose freddamente Mario.
«Non la vedrò più,» mormorò Valjean, dirigendosi verso la porta.
Mise la mano sulla maniglia, la stanghetta cedette e la porta si socchiuse. Valjean l'aperse quanto bastava per passare, rimase un secondo immobile; poi, richiusa la porta, si voltò verso Mario. Non era pallido, ma livido; non aveva più lagrime negli occhi, ma una specie di tragica fiamma. La sua voce era divenuta stranamente calma.
«Guardate, signore,» disse; «se volete, verrò a vederla. V'assicuro che lo desidero moltissimo; se non avessi tenuto a vedere Cosette, non v'avrei fatta la confessione che v'ho fatta e sarei partito. Ma poiché volevo restare nel luogo dov'è Cosette e continuare a vederla, ho dovuto onestamente dirvi tutto. Seguite il mio ragionamento, nevvero? È una cosa facile a capirsi. Vedete? Son più di nove anni che l'ho con me; abbiamo abitato dapprima in quella catapecchia del viale, poi in convento, poi vicino al Lussemburgo, dove l'avete incontrata la prima volta. Vi ricordate il suo cappello di feltro celeste? Siamo stati poi nel quartiere degli Invalidi, in via Plumet, dove avevamo un giardino con una cancellata; io abitavo in un cortiletto interno, dal quale sentivo il suo piano. Ecco la mia vita. Non ci separavamo mai; e questo è durato nove anni e qualche mese. Io ero come suo padre, ed ella era mia figlia. Non so se mi comprendiate, signor Pontmercy; ma andarmene ora, non vederla più, non parlarle più, non aver più nulla, mi riuscirebbe difficile.
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