«Oh!» gli disse. «Siate buono!»
E proseguì:
«Ecco quel che io chiamo esser buono: esser cortese, venire ad abitare qui, riprendere le nostre belle passeggiatine (ci sono uccelli anche qui, come in via Plumet), vivere con noi, abbandonare quel buco di via dell'Homme-Armé, non darci sciarade da indovinare, essere come tutti, cenare e pranzare con noi, esser mio padre.»
Egli liberò le mani dalla stretta.
«Ora che avete un marito, non avete più bisogno d'un padre.»
Cosette s'arrabbiò.
«Non ho più bisogno d'un padre? Non si sa davvero che dire di simili cose, prive di senso comune!»
«Se Toussaints fosse presente,» riprese Valjean come uno che cerchi un autorevole appoggio e s'attacchi a tutti i rami, «sarebbe la prima a convenire che è vero ch'io ho sempre avuto le mie manìe. Non v'è nulla di nuovo; m'è sempre piaciuto stare nel mio cantuccio scuro.»
«Ma qui fa freddo e quasi non ci si vede! È una vergogna che vogliate esser il signor Jean; e poi non voglio che mi diate del voi.»
«Proprio adesso, nel venir qui,» rispose Jean Valjean «ho visto in via San Luigi un mobile, da un ebanista. Se fossi una bella donna, mi farei un regalo di quel mobile: è un bellissimo tavolino da toletta, del genere di moda; quello che voi chiamate, credo, legno di rosa. È intarsiato, con uno specchio piuttosto grande e varii cassetti. Graziosissimo.»
«Oh, brutto orsacchiotto!» ribattè Cosette.
E con estrema grazia, serrando i denti e aprendo le labbra, soffiò contro Valjean; era una Grazia che imitava una gatta.
«Sono furiosa,» riprese.
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