Non era già la stanchezza solita, che logora le forze per rinnovarle; era quel che gli rimaneva di gesti possibili, era la vita sfinita, che si spegne in sforzi accascianti, che non verranno più ricominciati.
Una delle sedie su cui si lasciò cadere era posta davanti allo specchio, così fatale per lui e così provvidenziale per Mario, in cui aveva letto sulla carta asciugante la calligrafia rovesciata di Cosette. Si vide in quello specchio e non si riconobbe. Aveva ottant'anni, mentre, prima del matrimonio di Mario, gliene avrebbero dati appena cinquanta: quell'anno aveva contato per trenta. In fronte, non aveva più la ruga dell'età, ma l'impronta misteriosa della morte; vi si sentiva lo scavo dell'unghia implacabile. Le gote eran flosce; la pelle del viso aveva quel colore come vi fosse già sopra la terra ed i lati della bocca s'abbassavano come in quelle maschere che gli antichi scolpivano sulle tombe; egli guardava il vuoto con aria di rimprovero, e si sarebbe detto uno di quei grandi esseri tragici che piangono un morto.
Era in quello stato, ultima fase dell'abbattimento, in cui il dolore non scorre più, come fosse, per così dire, coagulato, e in cui sull'anima si forma un grumo di disperazione.
La sera era scesa. Egli trascinò laboriosamente un tavolo e la vecchia poltrona vicino al camino, e depose sul tavolo carta, penna e calamaio.
Fatto questo, ebbe uno svenimento. Quando riprese i sensi, aveva sete, e, non potendo sollevare il recipiente dell'acqua, lo inclinò con fatica verso la bocca, e bevve un sorso.
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Mario Cosette Mario
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