Il disegno non mi era guasto dal ridurre a forma aulica le parole del vernacolo fiorentino; ma ogni menoma giunta od alterazione nella dicitura l'avrebbe sventato. Il Nerucci, che la pensa diversamente da me e che si proponeva un fine diverso, ha tenuto modo diverso nello scriver le sue novelle. Il ringrazio d'avermi impinguato il volume; le novelle, anche raccolte in quel modo, son preziose; ma non ritengo però il suo modo miglior del mio, preferibile al mio: tanto è vero, che, per parte mia, persevero nel mio[6]. Quanto alla vivezza, al brio ed all'evidenza, che sono il carattere comune e generale del parlar fiorentino, secondo il D'Ancona, e che in questo libro, sempre secondo lui, apparirebber di rado, ci sarebbe che dire. Sarebbe storto e stolto lo immaginare, il credere, che ogni fiorentino, sol perchè fiorentino, parli con vivezza, con brio, con evidenza. Qualità rare a Firenze, come dovunque; e che solo di quando in quando dimostra chi più largamente le possiede, in Firenze, come dovunque. Se l'eloquenza e l'efficacia nel dire non fossero dono concesso a pochi, non sarebber parse cosa divina a tutti i popoli, ned affascinerebbero e signoreggerebbero le menti ed i cuori degli uomini, come tutto giorno vediamo accadere. Non cadiamo, per carità, nelle ingenue ammirazioni del Giuliani e d'altri; falsissime ammirazioni. Parecchi ed anche non volgari uomini mi hanno deriso, per avere io, come a lor pare, sciupato il tempo in queste fatiche. Io non lo sciuperò a provarne l'utilità. Mi rallegro bensì, che l'esempio da me dato e gl'incitamenti miei abbian mosso parecchi a raccoglier con amore le fiabe e le novelle, che corrono appo i volghi italiani; e nominerò con lode singolare i signori Domenico Giuseppe Bernoni, che ne diè fuori un volumetto in veneziano; e Giuseppe Pitrè, che ne ha pubblicata una raccolta voluminosa ne' vernacoli siculi.
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