G. B. Basile, Le avventurose disavventure, Att. I, sc. 1.
Che vita più peggior credo non siaDel pescator, ch'ogni ora
Nel mobil flutto la sua vita arrischia.
[6]: In Firenze, sul Ponte Vecchio, di qua e di là son tutte bottegucce d'orefici e giojellieri.
[7] Un contrassegno identico, che serve poi a distinguere il segnato dal suo Menecmo o Simillimo, si trova nella Cerva fatata, trattenimento primo della giornata nona del Pentamerone. Ed eran di moda simili trovati nelle commedie, quando le finivan presso che tutte con agnizioni. Dico il medesimo di quella voglia del granchio, per cui la principessa è riconosciuta dal padre.
[8] Alò, suvvia. Per fermo dal francese Allons.
[9] Non so resistere alla tentazione di appor qui una annotazioncella interpretativa, contra il mio proposito. In questa fiaba è contenuto un mito solare evidentemente. Il mago è l'inverno; Antonio è il sole; la Principessa è la terra che per opera del sole smette il lurido ammanto che ne copriva le bellezze. Tutti i particolari ritraggono di questo carattere, compresi i capelli d'oro d'Antonio e la voglia che allude a un segno del Zodiaco.
III.
LA VERDEA[1].
C'era una volta un legnajolo di corte, e aveva tre figliole. Queste eran ragazze. Dunque il Re gli comanda di andare a fare un lavoro fori via, ma di molto; per cinque o sei anni. Quest'omo non poteva dire: - «Non ci vado!» - A voler mangiare!... Ma gli rincresceva d'andarsene lontano, in un paese, per affare di quattro o sei anni di lavoro. Torna a casa dalle figliole tutto inconsolabile, afflitto; e gli dice: - «Ragazze, Sua Maestà m'ha ordinato questo lavoro.
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