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      » - La verdea, l'è roba che si mangia come una conserva, io m'immagino; ma cosa sia appuntino io non so[8]. Le non ci avevan posto: pensano di metterlo sotto al letto, rimpetto alla finestra, questo vaso. Eccoti Maestà: - «Ho le belle fila d'oro! ho le belle fila! ho le belle fi'.» - «Eccolo, eccolo! per l'amor d'iddio non ci facciamo conoscere. Ci vuol coraggio, gua'.» - Calano il paniere, le funi solite; lo tiran su. Piangeva a calde lacrime. - «Oh Maestà! Ma cos'avete?» - lo vedevan troppo disperato. - «Ah quel ch'i' ho? Peggiore di tutte l'altre sere! Non basta essere stato da me in persona. Questo è qualche astro maligno o qualche fata. Ma io non ne darò mai più di questi festini.» - Discorrevano del più e del meno, loro dicendo sempre: - «Tanto bon signore!» - e sempre replicavano questa parola. Sua Maestà si è trattenuto altra mezz'ora, come il solito, da queste ragazze, e se ne va: - «Addio, addio, a domani.» - Nel mentre le ragazze lo calano, lui vede il vaso della verdea sotto il letto: - «Oh traditore!» - gli dice, e fa per ritornare su in casa. E loro lo buttano di sotto senz'altri discorsi. Chi lo buttò fu la sorella minore. Sua Maestà si fece un male, ma male passabile. Lascio considerare le ragazze maggiori come rimasero, dicendogli, alla sorella: - «Qualunque sia il caso, la rea tu siei te. Noi non ci s'ha colpa.» - Venghiamo a Maestà. Va nel suo quartiere e subito scrive al suo padre, delle ragazze, una lettera fulminante: che in due ore e mezza, lui fosse al palazzo, altrimenti, pena la testa.


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La novellaja fiorentina
Fiabe e novelline
di Vittorio Imbriani
Editore Vigo Livorno
1877 pagine 708

   





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