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      (Che questa è l'ora ch'io li meno a bevere)
      Però vorrei che finissi. E perdonamiS'io son crudel contra te, che è mio debito
      Ubidir chi mi tien al suo servizio.
      Filovevia.
      Io, Melibëo, ti perdono e scusoti,
      Chè tu ubbidisci a quello, a cui io similementeho sempre ubbidito; e s'egli dettomi
      Avesse ancor, ch'io mi dovessi uccidereDi mia man, l'avrei fatto. Di te dolgomi,
      Ergasto, ben, che non mi festi intendereCotesto, quand'io stava in tua presenzia,
      Acciò ch'io avessi almen potuto pascermiAvanti il mio morir della dolcissima
      Tua vista a voglia mia, come suol pascersiDe la vista del sole anzi il suo incendio
      La fenice. Mi doglio, che ingannata miAbbi, senza pensar, che comandarmelo
      Potevi apertamente; e mi rammarico,
      Che non abbi voluto farmi graziaAlmen, ch'io mora nella tua presenzia.
      O che dolce morir! Ma ben dolcissimoSarebbe stato poi se di tua propria
      Man, poichè non volesti farmi vivere,
      (Chè viver chiamo il vivere in tua grazia)
      Ti fossi contentato almen di uccidermi.
      Melibeo.
      Ninfa, che fai? Su, bisogna risolversi,
      Poi ch'ho poi altro che fare. ComandamiUn'altra volta, quand'io avrò più ozio.
      Vuoi dir altro mentr'io m'alzo le maniche?
      Filovevia.
      O dei, abbiate voi pietà de l'animaMia, poi ch'altri non ha voluto averla del
      Corpo. Di ciò vi prego e poi vi supplicoPerdonare ad Ergasto la mia prossima
      Morte, poi ch'anch'io voglio perdonargliela.
      E se gli avete a dar castigo, dateloA me per lui, che il prenderò lietissima.
      E prego, Melibeo, quanto è possibile,
      Che dapoi ch'io sarò morta, tu abbiiRaccomandato il mio corpo, guardandolo,


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La novellaja fiorentina
Fiabe e novelline
di Vittorio Imbriani
Editore Vigo Livorno
1877 pagine 708

   





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