Che ti faranno smorfie e meraviglie:
Ma tu, lasciale in pasto a sarde e triglie.» -
Indi intima alla moglie e damigelle,
Di parco cibo non ancor satolle,
Che senza farsi nè lisciate e belle,
Le aspetta di Gaeta al piè del colle.
Vanno quelle innocenti meschinelle,
Che il Prence di veder desio le bolle.
E nell'entrar del mar nell'ampia valle,
Le portò il marinar sopra le spalle.
Il Principe montò l'altra filuca,
E la sposa mirò come nemica,
Che non sa dove il fato or la conduca;
Lo chiamava: ma indarno è la fatica.
Fero le damigelle in mar la buca,
Onde avvien che Fiorlinda esclami e dica:
- «Empî, che fate?» - in guardatura bieca,
Ma bella, che pareva Elena greca.
Poi presero Fiorlinda allora allora,
Ma tutti quasi con ridente cera;
Dicendo: - «Voi dovete, o mia signora,
Cenar con Teti in questa propria sera.» -
Ma lei si smania e strazia e si addolora,
Dicendo: - «Il Prence ha un cor di belva o fera.» -
Prega, singhiozza, lagrima e sospira,
Che d'un tigre averìa80 placata l'ira.
Era quel marinar pien di clemenza,
E immobil stette con la sua costanza,
E solo di salvarla il modo penza (sic)
E vivere sicur nella sua stanza.
Attribuì del mare all'inclemenzaE l'impeto suo proprio81 e l'incostanza.
La spoglia e poi da marinar l'acconza,
E la portò nell'isola di Ponza.
L'altra mattina addolorata e mestaRitornò la filuca alla sua costa,
Riportando a quel principe la vesta,
Che per la sposa sua fu fatta a posta.
Nel mirar questa spoglia atra e funestaA deliquio mortal quasi si accosta,
Toglierla comandò dalla sua vistaE nel proprio dolor piange e si attrista82.
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