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      [3] «Voleva dire: avevano, se pur non è una specie di latinismo popolare.» - G. N.]
     
     
     
      XLVII.
     
      MANFANE, TANFANE E ZUFILO.[1]
     
      C'era una volta tre fratelli; e si chiamavano Manfane, Tanfane e Zufilo. Ma Zufilo era piuttosto imbecille che nò, al paragone degli altri due maggiori dimolto furbi. Tutti questi fratelli facevano, come sarebbe a dire, l'arte di allevare capi di bestie grosse, vacche, manzi, vitelli, tori; e la mandria la tenevano in combutta, senza divisioni, ma ogni cosa assieme. Un giorno Manfane e Tanfane, che volevano diventar padroni dispotichi di tutta la mandria, senza farne parte al fratello piccolo, gli dissero con furbizia, perchè era giucco: - «S'ha a partire[2] la mandria: un rinserrato per uno; e' capi, che ci vanno dentro, saranno di chi è il rinserrato.» - Si trovaron d'accordo in sul patto e ognuno si messe di bona voglia a fare il rinserrato. Quelli di Manfane e di Tanfane erano di belle frasche tutte verdi e fronzute, e Zufilo invece scelse per il suo de' pali secchi e frasche senza foglie. Sicchè, dunque, la mandria andò tutta ne' rinserrati di Manfane e Tanfane; e nel rinserrato di Zufilo non c'entrò che una vacca magra magra, che gli si vedevano tutte le costole. Zufilo disse allora alla moglie: - «Che se ne fa di questa manza secca allampanata? È meglio ammazzarla e venderne la pelle in città.» - «Sì sì,» - disse la moglie. - «Ammazzala, si venderà la pelle a caro prezzo.» - Zufilo preso un coltello, scannò dunque la vacca. E poi la scorticò. E il cojo, lo fece seccare al sole; e, quando fu ben rasciutto, se lo messe in spalla, e colla moglie andò alla città vicina.


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La novellaja fiorentina
Fiabe e novelline
di Vittorio Imbriani
Editore Vigo Livorno
1877 pagine 708

   





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