Ché, se si trova una ragione di preferenza nell'ordine degli effetti, che le due condotte rispettivamente producono o tendono a produrre, quest'ordine di effetti dà alla condotta correlativa un valore che sussiste indipendentemente dal fine soprannaturale, e diventa il fine naturale della condotta medesima.
Con questa differenza tra i due fini: che mentre dato il primo, non si può (se non facendo appello a una rivelazione, cioè a una autorità, e quindi a una pura affermazione) ricavare da esso quale sia la condotta atta a raggiungerlo; dato questo fine naturale, le norme si ricavano appunto dalle condizioni da cui il fine dipende, cioè dalla connessione naturale tra la condotta, e gli effetti della condotta. Ossia un fine soprannaturale non può fornire esso il criterio per determinare la condotta, se non a patto che - implicitamente o esplicitamente - si assuma, come subordinato ad esso e da esso richiesto, un fine, o un ordine di fini, naturale, in relazione al quale in realtà le norme sono stabilite.
Né concluderebbe nulla in contrario l'osservare che il criterio desunto dagli effetti che l'azione tende a produrre, riguarda la condotta esterna, non la interna, nella quale soprattutto consiste il valore morale. In primo luogo anche se per le due condotte, esterna e interna, valessero criteri diversi, bisognerebbe pur sempre riconoscere che, poiché anche la condotta esterna conta pure qualchecosa, sarebbe ancora necessario ammettere un criterio che valga a determinarla. In secondo luogo, benché siano, in ultima analisi, le tendenze, le aspirazioni, i sentimenti che hanno valore e danno valore alle cose e alle azioni, e ogni valutazione si riduca a valutazione comparativa di tendenze o sentimenti diversi; non bisogna dimenticare che i sentimenti, come le aspirazioni, si distinguono per il loro contenuto rappresentativo, cioè per l'oggetto a cui si riferiscono; e che anche le intenzioni sono sempre intenzioni di qualche cosa.
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