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      E allora non resta che questa alternativa; o si cerca un fine il quale contenga e comprenda in sé tutti i fini; e prendono forma i fantasmi di felicità, di beatitudine, di perfezione, nei quali si figurano definitivamente appagati tutti i desideri, e scomparsi o sommersi quelli che non vi trovano appagamento; oppure si considera come fine la forma colla quale si presenta alla coscienza la soddisfazione di qualsiasi desiderio; cioè il piacere o la liberazione dal dolore.
      Ma tanto l'una quanto l'altra delle soluzioni non sono che apparenti, o si risolvono in una vana tautologia. Porre come fine la felicità senza determinare quale sia o in che consista la felicità di cui si discorre, è certamente un modo per conciliare verbalmente tutte le differenze di opinioni e superare tutte le difficoltà; ma nella realtà non le concilia e non le supera, piú di quel che valgano a togliere le diversità di opinioni politiche e a raccogliere i partiti ad unità di intenti certi "ordini del giorno" in cui si afferma all'unanimità essere fine supremo per tutti il "bene della patria" o la "prosperità della nazione" o altre formule somiglianti.
      E se si determina in che si faccia consistere la felicità, quali siano i fini che si comprendono nel fine unico chiamato con questo nome, allora delle due l'una: o i diversi fini cosí compendiati e compresi nel fine unico, sono veramente unificati, e, perché ciò sia, occorre che essi possano ridursi ad uno, e quindi che si possa dimostrare che uno fra essi è causa o condizione degli altri, o che tutti dipendono da una medesima condizione o ordine di condizioni; e in questo caso la felicità è caratterizzata o da quel fine o dal conseguimento di questa condizione, che diventa esso fine, perché su esso si riversa la desiderabilità di tutti; e il termine felicità non è che un duplicato di quel certo fine o di questa condizione.


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La dottrina delle due etiche di H. Spencer e la morale come scienza
di Erminio Juvalta
pagine 87