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      Oppure i diversi fini non sono che sommati insieme, e giustapposti l'uno all'altro, rimanendo in realtà distinti e senza che si veda la necessità della loro connessione; e allora l'unità non è che verbale, e in realtà invece di un fine, si hanno piú fini, ciascuno nel suo genere, supremo.
      Si dirà che si dà alla felicità non il senso di un certo contenuto determinato che la costituisca, ma il senso di appagamento dei desideri, di soddisfazione dei bisogni, senza che si definisca quali ne siano per essere il numero e le specie: nel qual senso si può affermare che la felicità rimane sempre il fine ultimo pur restandone indeterminato il contenuto? E si riesce allora alla seconda alternativa, di considerare come fine ciò che si ammette esservi di comune e di costante nel raggiungimento di qualsiasi fine; cioè, come s'è detto, la forma sotto la quale si presenta la soddisfazione di qualunque desiderio: il piacere o la liberazione dal dolore. Ma dire che il fine ultimo è il piacere è come dire che il fine ultimo è il godimento che accompagna il raggiungimento del fine o dei fini, o che lo scopo dei desiderî è... la soddisfazione dei desiderî. E allora si vede perché il puro piacere non possa dare un criterio di legittimazione e di valutazione comparativa dei fini e quindi delle forme di condotta. Perché, o si prende come criterio la quantità del piacere, la intensità della soddisfazione, senza badare alla natura del desiderio a cui corrisponde, e non è possibile assegnare un solo desiderio che abbia lo stesso valore, nonché per due coscienze diverse, neppure per la stessa coscienza in momenti diversi.


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La dottrina delle due etiche di H. Spencer e la morale come scienza
di Erminio Juvalta
pagine 87