E cosí accade che, mentre nell'apparenza il fine è uno, in realtà è duplice: uno è il fine nominalmente assunto, a significazione indeterminata e che per sé non potrebbe servire a costruirvi sopra che delle tautologie inconcludenti, ma che reca il titolo e le insegne, e quasi la formula magica, della sua sovranità: ed è la felicità (o quell'altro termine dello stesso genere); l'altro è il fine realmente assunto. Il contenuto determinato che serve alla deduzione, che regge la dottrina, e che fornisce veramente il criterio al quale si riconduce logicamente la legittimità delle norme, dei precetti e dei giudizi che se ne ricavano.
Cosí resta giustificato in nome della felicità ciò che viene determinato in conformità a quel certo contenuto. L'uno serve a costruire, l'altro a dar valore alla costruzione.
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Ora finché si ammette che la felicità o quel qualsiasi altro termine che lo sostituisce consiste veramente in quel contenuto sul quale si è costruita la dottrina, e l'accordo sulle deduzioni favorisce e conforta questa certezza, la distinzione fra il dato della costruzione e il supposto che lo investe del valore di fine, non ha luogo, o apparirebbe ingiustificata o pedantesca. È, o si ammette come pacifico, che il dato e il supposto coincidono, che l'uno esprime il significato dell'altro.
Ma se, sotto l'apparente unità del termine si mostrano le differenze di contenuto; e i fini particolari che si credevano fusi e, unificati in quell'unico fine, rivelano la loro incompatibilità; e un fine e un ordine o specie di fini pretende di valere come sommo, subordinando a sé od escludendo gli altri; allora è necessario scegliere.
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