Cosí nel raccomandare i precetti della temperanza si incontrano stoici ed epicurei, edonisti e mistici, egoisti ed altruisti, sia pure per motivi diversi, ossia in vista di fini diversi e anche opposti tra di loro; e nel raccomandare l'osservanza dei patti, l'homo œconomicus e l'homo ethicus si trovano pienamente d'accordo(12); ossia qualunque possa essere, tra quelli che sono comunemente accolti, il criterio assunto, chi lo accetta, deve ragionevolmente accettare quella norma; o, in altri termini, qualunque sia, tra i normalmente possibili, il fine accolto come supremo, chi lo accetta deve riconoscere che esso richiede come suo mezzo o condizione quel modo di operare.
Non riconoscerlo vorrebbe dire volere il fine e non il mezzo. Ora riconoscere che se si vuole il fine bisogna volere il mezzo, che se si accetta un principio bisogna accettare le conseguenze, questo è appunto, essere ragionevole. E poiché dai diversi principi tra i quali suole essere cercato, secondo le tendenze, quello che si assume come criterio, la deduzione logica conduce a quel medesimo precetto, questo precetto appare fondato in ragione, ragionevole per sé. E in effetto, non si potrebbe giustificare se non per mezzo della ragione; appunto perché è essa che ne dimostra volta a volta la connessione necessaria con ciascuno dei criteri che possono essere rispettivamente assunti per legittimarlo. Ma il valore di questi criteri primi o supremi è, per ciascuno dei casi, ammesso o presupposto. Di che si ha la riprova nel fatto che se, per ipotesi, si assume un criterio le cui conseguenze valutative non coincidono con le valutazioni comuni, cessa di apparire «ragionevole» quel modo di operare che è ritenuto - ed è in effetto - tale, finché sono considerati come legittimi i criteri consueti.
| |
|