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      Di qui derivano due conseguenze di importanza, a mio giudizio, capitale: 1° Che il modo di porre il problema della giustificazione è l'inverso di quel che logicamente dovrebbe essere; in quanto si accetta bella e data una norma, e si ricerca quale fine la possa far riconoscere giusta. (E di ciò si tratterà piú innanzi - v. Cap. II). - 2° Che si viene a cadere inevitabilmente nella tendenza di considerare i due problemi come un problema unico, identificando - obiettivamente - il principio della giustificazione col fondamento dell'obbligo, - soggettivamente - il riconoscimento della giustizia colla coscienza della obbligazione.
     
     
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      Questo bisogno di identificare il giusto coll'obbligatorio, e il fine che giustifica la norma col fondamento dell'obbligo, persiste anche quando l'indagine morale si volge a ricercare ciò che debba valere razionalmente come giusto, cioè anche quando si propone di far astrazione dal contenuto concreto della norma che in determinate circostanze di luogo e di tempo vale come obbligatoria. E perché persiste?
      Il riconoscere giusta una norma, per la relazione che lega la giustizia di essa con un fine, e il fine con una forma di tendenza, di bisogno, di desiderio, non è soltanto, come ognun sa, riconoscere la dipendenza del fine dalla condotta additata nella norma, ma è desiderare (qualunque sia la natura e la forza del desiderio) il fine; è un volere, per quanto ciò possa avvenire in forma iniziale e debole, quel fine; e quindi, dato che il fine sia comune, è un volere l'osservanza universale di quella norma.


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Prolegomeni a una morale distinta dalla metafisica
di Erminio Juvalta
Einaudi Editore Torino
pagine 61