Ciò vale per i fatti soggettivi come per gli oggettivi; e cosí avviene nel caso nostro che quell'esigenza dell'obbligo, la quale sorge internamente dal riconoscere una norma come giusta, se è data una certa condizione (l'esistenza di motivi antagonisti), viene ad essere considerata e pensata come intrinseca alla giustizia, come connessa coll'idea e col sentimento del giusto incondizionatamente.
Adunque quando si assume questa esigenza come un dato incoercibile dell'idea stessa di norma giusta, si è fatto o si fa un doppio passaggio: dall'esistenza di fatto di una condizione si passa alla costanza necessaria; ammessa questa costanza necessaria, la dipendenza del rapporto da questa condizione è dimenticata, e si considera il rapporto come intrinsecamente indissolubile.
Ma questo doppio trapasso, se è dal punto di vista psicologico naturale, non è dal punto di vista logico legittimo.
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Quanto al primo, dire che quella condizione è necessaria equivale a riconoscere l'impossibilità di una condotta giusta, quando manchi l'obbligazione. Senonché per quanto le osservazioni sopra esposte sembrino confortare questa conclusione, due considerazioni rendono legittimo il dubbio. Anzitutto è possibile che la norma riconosciuta come giusta contempli e accetti (dico anche nelle costruzioni razionali) condizioni contrarie alla giustizia, come si vedrà piú innanzi; e quindi la condotta prescritta da lei sia giusta solo parzialmente (parzialità relativa a limitazioni di casta, di classe, di razza nell'ordine della vita sociale; a limitazioni di specie e gradi di attività nella vita individuale). E allora resterebbe da vedere se e fino a qual segno, dal punto di vista naturale e umano, lo sforzo penoso che essa richiede sia l'indice di tendenze inconciliabilmente avverse alla giustizia, e fino a quale invece sia dovuto all'esistenza di bisogni, di tendenze, di aspirazioni, che non sono necessariamente opposti alla giustizia, benché siano in tutto o in parte in contrasto colla norma accettata per giusta.
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