Ora l'uno e l'altro tipo di argomentazione si svolgevano e si svolgono appunto nell'ambito di questo presupposto: che i principi morali debbano fondarsi su qualche cosa d'altro, che li legittimi, che ne dimostri la certezza, che ne faccia riconoscere la verità; senza avvertire che il fatto stesso del discutere, cioè dell'ammettere la buona fede, cioè dunque la moralità del contraddittore, smentisce il presupposto. Il che concorda con l'osservazione ovvia ma non negabile per la sua massiccia evidenza: che si trovano degli uomini di sincera e provata rettitudine morale fra i seguaci delle piú diverse dottrine.
Né vale l'obbiezione che si può fare e si fa: che non si tratta di vedere se ci siano delle persone morali, tra i seguaci di una dottrina, ma se questi siano logici o siano coerenti con se stessi; ossia se con quelle dottrine si possa ragionevolmente conciliare quel modo di giudicare e di valutare.
Perché una tale obbiezione non esce dall'ambito del presupposto, anzi lo implica, appunto perché ammette come pacifico che un criterio di valutazione morale abbia una connessione necessaria, cioè logica, con certi principi teorici, e che non possa essere accettato se non in grazia di quei principi. Ma è il presupposto del fondamento teorico che bisogna provare; e non si prova con una petizione di principio. Il criterio morale a non si legittima se non col principio teorico A; se troviamo accettato a con B con C con D e non con A, vuol dire che quella coscienza è illogica, incoerente.
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