Insomma, in quanto è stima non è speculativa, in quanto è speculativa non è stima.
La cosa appare anche piú manifesta se si bada che l'essere non può servire di criterio alla stima se non perché si ammette un ordine, una gradazione di enti, e quindi di realtà. Ma la realtà, in quanto esistenza, non ha gradi; ciò che si può graduare è il pregio o il valore (in qualunque entità esso sia riconosciuto), non l'esistenza delle cose; e la realtà è graduata perché sono graduati pregi, o i beni, o i valori che essa ci presenta realizzati.
Che i due termini siano diversi e l'uno non deducibile dall'altro appare manifesto dalla necessità di assumere, secondo la profonda e costante tendenza del platonismo, il concetto di perfezione come sintesi dei due concetti del reale e del bene, o con espressioni piú moderne, dell'esistenza e del valore.
Ora la perfezione non si può intendere se non in relazione con un modello, con un disegno attuato o da attuarsi, con una finalità; e la finalità implica una valutazione, cioè una scelta, cioè una volontà.
Ed eccoci alla sorgente unica e comune della impossibilità di derivare un criterio di morale dalla realtà obbiettiva, empirica o metempirica, da qualsiasi dato o legge o induzione o verità teoretica, sia scientifica, sia metafisica.
Una realtà data o possibile non può dare un criterio di valutazione se non la si considera come una finalità, ossia se non le si riconosce un valore. E il giudizio con il quale si afferma il valore di un oggetto è diverso e non deducibile dal giudizio col quale ne affermiamo l'esistenza o la possibilità o la connessione modale o condizionale con altri oggetti.
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