Se quel Potere è pensato senza limiti e attribuito a una volontà perfettamente morale cioè a una volontà la cui norma si identifichi con quella del mio Volere-valutante, questa Volontà — in cui il potere adegua il valutare e per la quale la attuazione dei valori morali adegua la posizione di essi valori come tali, cioè come degni di essere attuati — sarà pensata non solo come un potere che impone, ma come Autorità che merita, un'obbedienza incondizionata; e apparirà che derivino da un'unica sorgente cosí il comando che esprime la potenza operante di quella volontà, come la valutazione morale che ne esprime la norma; cioè apparirà fondato su quell'Autorità il criterio stesso della valutazione.
Ma lasciando ogni questione sulla legittimità delle postulazioni implicite in questi processi costruitivi e sulla possibilità della loro sintesi, è facile vedere come rimanga sempre inevitabilmente distinta e presupposta nel concetto dell'autorità imperante la valutazione, che giustifica il comando, che dà autorità al potere, che suggerisce l'identificazione di un Volere onnipotente con un Volere legiferante; la valutazione data nella coscienza morale, la quale rimane il postulato inespugnabile; non derivabile e non superabile; anche dove è sottinteso e dove sembra, a primo aspetto, derivato o subordinato.
Cosí se il teologo ammonisce di non biasimare come ingiusto o cattivo ciò che la Provvidenza dispone o permette, non contrappone alla valutazione morale una valutazione diversa, ma sostituisce e sovrappone alla «veduta corta d'una spanna» una sapienza infinita la quale vede i fini remoti di quell'ordine che a noi rimane occulto; e per il quale in realtà è bene quel che fuori di quell'ordine a noi appare un male.
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