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      La socialità stessa, come tendenza e come esigenza, può essere ed è valutata alla stregua della esigenza morale.
      Derivare la valutazione morale da fini sociali significa dunque derivarla da qualche cosa il cui valore è giudicato e posto in grazia di quella stessa valutazione che se ne vuol trarre.
      Di che si può trovare la prova in due considerazioni non difficili. La prima è questa: che il giudizio sulla maggiore o minore eccellenza e dignità dei fini designati come sociali e delle istituzioni, delle leggi, dei tipi di società, ammette o sottintende postulati morali; e che non v'è riforma sociale piccola o grande che non invochi e non debba affrontare il giudizio della coscienza morale.
      Quella stessa dottrina sociale (il marxismo) che formulò piú apertamente il proposito del piú risoluto amoralismo per fondarsi su un rigoroso determinismo storico, vede dissiparsi il suo bagaglio scientifico, e star saldo quel nocciolo di idealità etiche per le quali professava in vista il piú aperto dispregio, e che in realtà avevan dato l'anima alla dottrina e l'ali alla certezza.
      L'altra osservazione è questa; che appunto quel che vi è di vivo e di vitale e di durevole nella fede («fede è sostanza di cose sperate») che prende il nome dal socialismo, è sociale non nel fine, ma nel mezzo; mentre è, nel fine, e non potrebbe non essere, suggerito e alimentato da un ideale morale che ha per oggetto e per centro l'individuo, la unità personale umana. Poiché la proprietà collettiva è concepita, attesa, voluta come condizione necessaria a rendere effettiva la libertà di tutti, a far veramente di ogni individuo umano una persona umana.


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Il vecchio e il nuovo problema della morale
di Erminio Juvalta
Einaudi Editore Torino
1945 pagine 103