Il rispetto della legge in quanto è legge, astrazione fatta dal suo contenuto, è dunque il rispetto di ciò che la fa esser legge, della sua validità universale.
L'universalità è la forma della ragione che si pone come esigenza del volere puro; è la ragione stessa in quanto si manifesta come volontà, è la ragione pura pratica.
Se l'uomo fosse pura ragione, cioè se non fosse insieme un essere sensibile soggetto a tendenze, a impulsi di altre specie, il suo volere sarebbe santo, e non si potrebbe parlare di dovere. Invece il dovere c'è perché c'è l'esigenza di conformare l'azione alla ragione e non agli impulsi della sensibilità. E il volere buono e appunto il volere che posto fra la legge e quegli impulsi — di qualunque specie siano — si determina per la legge, cioè per l'universalità, che è la forma della volontà razionale.
Il criterio supremo della moralità è perciò espresso nella nota prima formula dell'imperativo categorico, di cui si dice piú sotto.
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Come si deve intendere quella universalità? E basta essa ed essa soltanto a fornire la caratteristica della valutazione etica, a distinguere ciò che vale moralmente da ciò che non vale?
Quando la prima formula dell'imperativo dice: «Opera soltanto secondo quella massima che tu puoi volere nello stesso tempo che diventi una legge universale», — questa possibilità di voler che la massima diventi legge universale può esser presa in due significati diversi.
Può voler dire la possibilità che sia seguita universalmente senza che l'osservanza da parte degli uni tolga o impedisca o limiti la possibilità della medesima osservanza da parte degli altri; la possibilità di pensarla senza contraddizione come legge universalmente valida;
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