o può significare invece la possibilità che il valore universale della massima sia riconosciuto senza che questo riconoscimento contraddica o neghi il valore, che è o si suppone già ammesso, di un principio piú generale; ossia che si possa volere l'universale validità della massima senza disvolere l'universalità di una massima piú generale che la comprende, e si suppone che già sia o debba essere ammessa come legge.
I due significati sono profondamente diversi, sebbene possa parere a prima vista che coincidano. Che, negli esempi che dà e nei commenti con cui li accompagna, lo stesso Kant non mescoli qualche volta i due sensi e non ne oscuri le differenze, non oserei negare; ma non parmi si possa dubitare che il vero significato inteso e voluto da lui sia il secondo e non il primo.
1. Se s'intende l'universalità nel primo senso bisogna riconoscere che:
a) non soltanto si può concepire, ma può darsi in effetto che sia seguita universalmente, una massima senza che perciò se ne ammetta il valore morale; come per converso:
b) può darsi che di una massima di condotta non sia possibile l'osservanza universale senza che perciò se ne riconosca l'immoralità.
a) Come esempi del primo caso basta citare uno di quelli addotti dallo stesso Kant (il 3° della Fondazione) in sostegno del criterio dell'universalità: l'esempio dell'uomo d'ingegno che preferisce il darsi buon tempo alla fatica di esercitare e perfezionare le sue doti naturali (dove è chiaro che non vi è nessuna impossibilità di concepire che tutti seguano quella medesima massima, sebbene questo non importi nessun riconoscimento di valore morale); e quello (addotto dallo Schopenhauer contro il Kant) della ragione del piú forte.
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