In quanto è uomo, senza dubbio; ma anche in quanto è questo.
L'uomo-ragione dà, come s'è detto e ripetuto, la sola coerenza. Non è poco, ma non è tutto.
L'uomo-volontà pone questa coerenza come legge del mio valutare e del mio fare, impone a me che l'idealità posta e riconosciuta come suprema valga veramente come suprema, che io ne affermi il valore intrinseco, ne approvi o ne accetti le esigenze sempre dovunque si presentano, in me e fuori di me; mi impone, in una parola, di essere persona; e di volere che ogni uomo sia persona.
Ma non è ancor tutto. Quel che io devo essere per valere come persona, l'idealità che deve dare unità al mio io, e in cui si esprime non la volontà in genere, ma la mia volontà di essere persona, è posta da questa mia volontà ed ha valore per me perché è posta da lei.
Certo, la mia coerenza deve essere e non può essere altro che la coerenza della ragione; l'esigenza che la mia volontà impone a me di essere persona è quella medesima esigenza che la volontà di ciascun altro (capace di moralità) impone a lui, e che a me e a lui e a ciascun altro impone il rispetto della persona come tale; ma l'una e l'altra esigenza non investono il medesimo contenuto spirituale in me e negli altri. Limitano le categorie di valori, nelle quali l'io può attingere l'idealità regolatrice, ma non determinano per tutte la medesima idealità.
La mia volontà deve — per far di me una persona — uniformarsi a quelle due esigenze che sono le esigenze necessarie e costanti di ogni personalità (non solo reale, ma anche fittizia); e deve perciò superare l'io transitorio, l'io degli interessi momentanei e mutevoli (dei quali non si misura il valore che dal loro effetto su di me), e appuntarsi in una idealità che le sia norma; ma non può uscire di sé per diventare una volontà diversa, non può cessare di essere quella certa volontà, che fa di me non la persona umana in generale, ma la mia persona.
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