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      Si è enormemente esagerato questo uso, ma si trova questa usanza presso tutti i selvaggi; essa à la stessa origine dell'abbandono dei bambini. Quando un «vecchio» sente che è un fardello per la sua tribù; quando ogni mattina la sua parte di nutrimento è tanta di meno per la bocca dei bambini che non sono tanto stoici quanto i loro genitori e gridano quando ànno fame; quando occorre che ogni giorno egli sia portato lungo le rive pietrose od a traverso la foresta vergine sulle spalle di gente più giovane (mancano le vetture per i malati, e gl'indigenti per spingerle nei paesi selvaggi), incomincia a ripetersi ciò che i vecchi contadini russi dicono ancor oggi: Tchouyôï vek zaiedàïou, pora no pokôï! (Vivo la vita degli altri; è tempo di ritirarmi). Ed egli si ritira. Fa come il soldato, in questi casi. Quando la salvezza del proprio battaglione dipende da una avanzata, ed egli non può più andar avanti, e sa che morrà se resta indietro, il soldato prega il suo migliore amico di rendergli un ultimo servigio prima di lasciare l'accampamento. E l'amico con mano tremante scarica il suo fucile sul corpo del morente. È ciò che fanno i selvaggi. Il vecchio chiede egli stesso di morire; insiste su quest'ultimo dovere verso la comunità, ed ottiene il consenso della tribù; egli scava la sua tomba; invita i suoi parenti all'ultimo pasto d'addio. Tanto è vero che il selvaggio considera la morte come una parte dei suoi doveri verso la comunità che (come racconta Moffat) non solo ricusa di essere salvato, ma una donna che doveva essere immolata sulla tomba del marito e che fu salvata da missionari e condotta in un'isola, fuggì di notte, traversò a nuoto un largo braccio di mare per raggiungere la tribù, e morire sulla tomba di lui.


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Il mutuo appoggio fattore dell'evoluzione
di Petr Alekseevic Kropotkin
Libreria Internazionale di Avanguardia Bologna
1950 pagine 350

   





Tchouyôï Vivo Moffat