Nel secolo XVIII il selvaggio e la sua vita «allo stato di natura» furono idealizzati. Ma oggi i dotti si sono portati all'estremo opposto, particolarmente dacchè alcuni di essi, desiderosi di mostrare l'origine animale dell'uomo, ma non avendo familiari gli aspetti sociali della vita animale, si sono messi a caricare il selvaggio di tutti i caratteri «bestiali» immaginabili. È evidente, tuttavia, che questa esagerazione è ancora più antiscientifica che l'idealizzazione del Rousseau. Il selvaggio non è un ideale di virtù, ma non è neppure un ideale di selvatichezza.
L'uomo primitivo à tuttavia una qualità, prodotta e mantenuta dalle necessità stesse delle sue dure lotte per la vita, - egli identifica la propria esistenza con quella della sua tribù; senza questa qualità l'uman genere non avrebbe mai toccato il livello al quale è giunto.
I primitivi, come abbiamo detto, identificano talmente la loro vita con quella della propria tribù che ciascuno dei loro atti, per quanto insignificante, è considerato un affare che li concerne tutti. La loro condotta è regolata da un'infinità di regole di convenienze orali, che sono il frutto della comune esperienza sopra ciò che è bene e ciò che è male, vale a dire vantaggioso, o nocivo, per la loro tribù. I ragionamenti sui quali sono basate le loro regole di convenienza sono qualche volta estremamente assurdi; molte sono nate dalla superstizione; e in generale, in tutto ciò che fa, il selvaggio non vede che le immediate conseguenze dei suoi atti; egli non può prevedere le loro conseguenze indirette ed ulteriori.
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Rousseau
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