Il darwinismo politico e sociale ha invaso, a guisa di epidemia, per non breve corso di anni, le menti di parecchi ricercatori, e assai più degli avvocati e dei declamatori della sociologia, ed è venuto a riflettersi, quale abito di moda e qual corrente fraseologica, perfino nel linguaggio cotidiano dei politicanti.
Qualcosa di immediatamente evidente e di intuitivamente plausibile pare, a prima vista, ci sia in cotesto modo di ragionare; il quale, poi, si contraddistingue principalmente per l'abuso dell'analogia, e per la fretta del conchiudere. L'uomo è senza dubbio un animale, ed è legato da rapporti di discendenza e di affinità ad altri animali. Non ha privilegio di origine, nè di struttura elementare, ed il suo organismo non è, se non un caso particolare della fisiologia generale. Il suo primo ed immediato terreno fu quello della semplice natura, non modificata da artificio di lavoro; e da ciò derivarono le condizioni imperiose ed inevitabili della lotta per l'esistenza, con le conseguenti forme di accomodazione. Di qui ebbero origine le razze, nel vero e genuino senso della parola, in quanto, cioè, sono determinazioni immediate di neri, di bianchi, di ulotrici, di lissotrici e cosi via, e non formazioni secondarie storico-sociali, ossia i popoli e le nazioni. Di qui i primitivi istinti di socialità, e, per entro al modo di vivere in promiscuità, i primi rudimenti della selezione sessuale.
Ma dell'uomo ferus primaevus, che possiamo ricostruirci in fantasia per combinazione di congetture, non è dato a noi di avere una empirica intuizione; come non ci è dato di determinare la genesi di quel hiatus, ossia di quella discontinuità, per la quale l'uman genere s'è trovato come distaccato dal vivere degli animali, e poi in seguito sempre superiore a questo.
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