Al postutto tutto ciò si riduce ad una enunciazione più generale: l'uomo non percorre più storie in uno e medesimo tempo; ma tutte le pretese varie storie (arte, religione, etc.) ne fanno una sola. E ciò non può vedersi perspicuamente se non nei momenti caratteristici e significativi della produzione di cose nuove, ossia nei periodi che dirò rivoluzionarii. Più tardi, l'acquiescenza nelle cose prodotte, e la ripetizione tradizionale di un determinato tipo, obliterano il senso delle origini.
Si provi alcuno a distrarre l'ideologia delle favole, che stanno in fondo ai poemi omerici, da quel momento dell'evoluzione storica, in cui spunta l'aurora della civiltà ariana nel bacino del Mediterraneo; da quella fase, cioè, della barbarie superiore, nella quale nasce, così in Grecia come altrove, l'epos genuino. Faccia conto altri di immaginare, che il cristianesimo nascesse e si sviluppasse altrove che nella cerchia del cosmopolitismo romano, e altrimenti che non per opera di quei proletarii, di quegli schiavi, di quei derelitti, di quei disperati, ai quali occorreva la redenzione, l'apocalissi, e la promessa del regno di Dio. Trovi chi voglia il modo di fingere, che nel bel mezzo della Rinascenza spuntasse fuori la romantica, che appena s'accenna nel decadente Torquato Tasso; o faccia di attribuire a Richardson o a Diderot il romanzo di Balzac, nel quale apparisce, come in contemporaneo della prima generazione del socialismo e della sociologia, la psicologia delle classi. Lassù, in dietro in dietro, alle prime origini delle ideazioni mitiche, ci è chiaro che Zeus non assunse i caratteri di padre degli uomini e degli dei, se non quando la patria potestà era già stabilita, e cominciava l'inizio di quella serie di processi, che mettono capo nello stato.
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