Questo è il caso, per es., di molti dei divulgatori della disputata e disputabile antropologia criminale.
Come intento e come tendenza essa rappresenta una parte notevole di quella salutare critica del diritto punitivo, che pian piano è riuscita a scuotere dai fondamenti tutta la costruzione filosofica, e soprattutto etica, di un fatto così semplice e così empirico, qual è quello della inevitabilità del punire, data la esistenza di una società. Nel metodo, però, di rado essa esce dai confini della combinatoria statistica, e da quell'a un di presso di verosimile, che è proprio del variopinto complesso di studii, che chiamasi in genere antropologia. Quasi mai si avvicina, per es., alla precisione di indagine, per la quale la psichiatria, che parrebbe secondo alcuni affine, grazie ai progressi maravigliosi dell'anatomia dei centri nervosi, e di tutte le parti della medicina, ha contribuito allo sviluppo della psicologia, nel giro di pochi anni, assai più non facessero in venti secoli le discussioni sul testo di Aristotele, e le ipotesi dello spiritualismo e del materialismo puramente razionalisti.
Ma non è ciò che mi prema di notare.
In quella dottrina campeggia la tendenza a fissare, come predisposizioni (innatistiche) le ricorrenze del delinquere in quegli individui i quali presentino certi caratteri indiziali, caratteri, che nell'aspetto obiettivo, del resto, non son sempre, né ben raccolti, né ben fissati. E qui nulla di male.
La teoria, che sta in fondo al diritto penale dei paesi su i quali la rivoluzione borghese abbia esteso l'azione sua, ha di comune con tutto ciò che chiamiamo liberalismo i pregi e i difetti di quel principio egalitario, il quale, date le differenze naturali e sociali degli uomini, non può non essere puramente formale ed astratto.
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Aristotele
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