Il cristianesimo si è diffuso fra gli umili, fra i reietti, fra le plebi, fra gli schiavi, fra i disperati di quelle grandi città, la cui tenebrosa vita c'è appena appena in qualche piccola parte dichiarata dalla satira di Petronio e di Giovenale, dai volterriani racconti di Luciano e da quei macabrici di Apuleio. Che cosa sappiamo noi di preciso su la condizione di quegli Ebrei della città di Roma, in mezzo ai quali si diffuse dapprima nell'Occidente la nuova trista superstizione, come ebbe a dir Tacito; quella superstizione, che nel volger dei secoli crebbe nel più potente organismo sociale che conosca la storia? Quelle prime origini non ci è lecito di ridurle in intuitivo racconto, e noi siam costretti a rifarle per congettura e per combinatoria. Questa è la ragion principale della interminabile letteratura in proposito; specie per opera dei dotti di Germania, che, anche quando non sian per nulla credenti, usano di chiamar teologia cotesta letteratura critica ed erudita.
La relativa oscurità delle prime origini fa nascere nelle menti di molti la curiosa credenza in un cristianesimo vero che sarebbe stato assolutamente difforme da quanto altro ha preso poi nome di cristiano in seguito. Quel cristianesimo vero, anzi originario, che poi viceversa è tanto oscuro, che ognuno può intenderlo a modo suo, fa soventi le spese della polemica di quei razionalisti, i quali, dopo d'aver coverto d'invettive cotesta empirica chiesa, a noi nota per la storia o per l'esperienza nostra, per rinforzo di argomentazione retorica si appellano alla chiesa ideale, che sarebbe stata la primitiva comunione dei santi.
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