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      Sì, tutta l'altra opera del D'Annunzio non sarebbe venuta alla luce senza l'inopportuna ira di Giuseppe Chiarini, di Leone Fortis e di altri paperi siffatti.
      Paperi, sì, paperi, giacchè sperare - come facevano costoro - che un ammalato di «satiriasi fantastica» potesse, ai loro rimproveri, provar vergogna del Canto novo, che era appunto il veicolo da lui escogitato per trovare uno sfogo alla sua impotente libidine, era una speranza da paperi. Un individuo che, a causa dell'intero o parziale difetto nel funzionamento di quel tale organo, tutte le ventiquattro ore della giornata viveva - come vive tuttavia - immaginando donne ignude dalle curve opulenti, dalle cosce levigate, dalle turgide ed erette mammelle, e, che è più, tutte ammalate di ninfomania, l'ha di ragione rotta colle leggi della verecondia, anzi con tutte le leggi della vita morale, e la natura per lui non è che un immenso lupanare, peggio, un abominevole continuo incesto, e la vita per lui non ha altro scopo che quello di aspirare l'odore acre di ascelle, di inguini, e..... d'altre cose. Onde accade che ogni sua produzione artistica (?) ha solo e sempre per motivo aperto o latente un pajo di femminee cosce desiderate, sì, ma non possedute; e il successo di coteste sue produzioni è solo dovuto e sempre alle parole veneree che, ogni volta, egli tira fuori, compiacendosene, ad una ad una come perle da uno scrigno: parole che si vedono per le lettere che le compongono, che si odono pel suono che producono, che si succhiano pel miele che contengono, e che aizzano le veneree brame dei giovani onanisti, dei vecchi debosciati, e, specie, di quelle lettrici che, bacate nell'anima, se non nel corpo non ancora posseduto dal maschio, si abbandonano ai lascivi «eroi» dannunziani, sostituendosi, colla fantasia, alle dannunziane «eroine» lascive.


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La Superfemina abruzzese
di Enotrio Ladenarda
Pedone Lauriel Palermo
1914 pagine 253

   





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