Ma con quale purezza, e come visibile la ideal forma dell'Androgine si delinea tra gli agitati cori dei mostri!»
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Androgine! Ecco, ecco perchè Elena ed Andrea si succhiano, si bevono, si sforzano di entrare l'uno nel corpo dell'altro! Gli è che un impotente, non essendo, fisiologicamente parlando, nè maschio nè femina, può, a piacer suo, immaginarsi maschio o immaginarsi femina, e duplicare, così, il suo piacere come possedente e come posseduto. Ed ecco, ecco perchè, non solo nei personaggi maschi a modo suo, ma anche nei personaggi femmine a modo suo, il D'Annunzio non fa che ritrarre sè stesso. Sì, «dentro i simulacri vani dei suoi personaggi, sia che egli finga uomini o donne, vergini o efebi, maschi procaci o femine lascive, è lui che s'introduce in loro e che presta loro i suoi furori, i suoi impeti, i suoi delirî, i suoi disfacimenti voluttuosi; è lui che, nel graviglio di un desiderio patologico in cui tutte le libidini si chiamano e s'incontrano dalle più rudi alle più raffinate, a quelle figure presta i fremiti, i sospiri, i bramiti, i ruggiti. Pantea è lui, Basiliola è lui, e anche Fedra è lui. Isabella Inghirami è lui, e lo è anche Mila di Codro e lo è anche l'Inimica del «Trionfo della Morte», e via e via e via tutte queste femine che ci passano innanzi in una ridda di contorcimenti lascivi, tutte son carne della stessa carne: la carne di lui.»(3)
Ed è perciò nauseante. Ma gli è certo che - mentre, come uomo mancato, supplisce al suo difetto colla fantasia, immaginando unioni e scene libidinose - come istrione che sa il fatto suo, procaccia a sè la più grande réclame in mezzo alla innumerevole classe dei corrotti che collezionano immagini oscene.
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