Il D'Annunzio è un mondano per eccellenza che ama produrre molto scalpore attorno a sè servendosi di qualsiasi mezzo, anche presentandosi alla moltitudine coi suoi cani ammaestrati, come un clown; coi suoi cavalli di «nobile razza», come un cavallerizzo; colle sue mille toilettes, come una cortigiana, e sempre azzimato, odorante, trascinandosi dietro un esercito di moretti acclamanti, circondato da disegnatori, da fotografi, da mimi e da ballerine, mollemente, mellifluamente, donnescamente gestendo e parlando, lodandosi, esaltandosi, divinizzandosi, e con appiccicata tutto intorno alla sua macra piccioletta persona questa etichetta: Io sono superuomo. E sotto agli occhi spalancati della folla, ecco, opera un gran prodigio, quello d'intascare - ogni volta - molte decine di migliaja di lire per opere «superumane» che vanno costantemente a finire - se drammi - sotto una tempesta di fischi; se romanzi - nei gabinetti di lettura aggregati ai postriboli e luoghi affini.
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Il «superuomo dannunziano» è costantemente un licenzioso, cioè uno che si arroga il diritto di rompere tutte le leggi sociali per dare libero sfogo alle sue passioni carnali, o per compiere delle stupide imprese; egli è perciò o un debosciato che giunge perfino a gloriarsi dell'incesto, o un incosciente che giunge perfino a gloriarsi dell'assassinio.
Il Divo non può modellare i suoi superuomini che sopra se stesso, onde è naturale che egli conferisca loro le sue proprie qualità.... superumane.
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D'Annunzio Divo
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