Il plebeo! - E, certo, indispettito da quest'ultimo ricordo, Gabriele drizza la prora verso Zacinto - (per tutto l'oro del mondo egli non osa profanare giammai le sue labbra e la sua penna dicendo e scrivendo Zante).
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Lungo il tragitto egli si trasporta col pensiero - chi sa dirmi il perchè? - alla nativa Pescara, dove la madre e le sorelle sue dolci sono attorno a cuocere - (è l'ora del tramonto) - la loro minestra. Ciò che gli suscita la visione della cucina e della minestra domestica è «un fil di fumo» che esce da un colmignolo di Zacinto. Oh i bei ceci, oh le grosse fave, oh le ferrugigne lenticchie! E a queste immagini leguminose e punto rettoriche, egli s'intenerisce e si metterebbe a piangere se ei non si ponesse ad intonare un inno alla «dolorosa», alla «paziente» genitrice, implorando «gloria» da tutti e sette i cieli planetari di Tolomeo sul bianco capo di «quella solitaria» che, viceversa, è in compagnia delle figliuole! Ma gli è che dove il Divo non è, quivi è solitudine e bujo pesto: non adeguasi egli all'universo, e non emanano da lui tutte le luci solari e stellari?
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Ed eccolo arrivato a Patre, l'antichissima Aroe, città dell'Acaja sul golfo di Patros - E guardate! Nel porto di Patre gli accade un caso inaspettato e strano: è là infatti che, per la prima volta, egli prova la nausea dell'acqua «oleosa e corrotta»; per la prima volta egli sente il lezzo dello «immondo traffico della vita di oggidì». Sissignori, di oggidì!.... - Ma, oh come mai di oggidì, se poco fa si è imbattuto in Ulisse?
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