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Ma - oh dolce sorpresa! - il sipario, ecco, si rialza e il nostro superuomo, ecco, si fa innanzi sulla ribalta a farci sentire ancora uno dei suoi divini ragli: l'Encomio dell'opera sua.
Ma, oh! che ce ne sarebbe bisogno? Oh! che un sì colossale meraviglioso pasticcio non si encomia da se stesso? Toglietelo sulle braccia, se potete: vedete che peso! E come enorme e preziosa ne è l'imbottitura! C'è dentro Penelope, Telemaco, Ulisse, Elena, Paride, Temistocle, Pericle, Alcibiade, Pindaro, una cicala, Giove, Mercurio, Bacco, Venere, Ippodamia, Thànatos, Pegaso, la «rosa di Beozia», l'acropoli eràclia, Colono, Maratona, Ezechiele, le Sibille, il «gran demagogo», Demetra, le macchine moderne, la dolce Toscana, la madre e le sorelle del «Poeta», ed altre cose infinite, che sono le più sciocche, le più vuote, le più dispaiate, le più incoerenti, le più grottesche, le più ridicole fra quelle che sono uscite dalla pelata superumana zucca dell'Immaginifico.
Al quale non occorreva meno di un pasticcio siffatto per «saziare la sua carne.» Egli può dire, perciò, parlando alla sua carne: «Io ti saziai, come l'alluvione sazia la terra.» - E noi ci congratuliamo con lui, tanto più che la sua carne, così saziata, ha acquistato una qualità di cui non saprei altrimenti darvi un'idea che invitandovi a pensare alla cote. - Non credete? - E allora sentite Gabriele:
«La mia carne è quasi pietra su cui si affilano i ferri.»
Egli asserisce il vero, e ne è prova il fatto che, se non tutta, almeno una certa parte della sua carne già servì ad affilare l'arma a valorosi guerrieri da angiporti e da alcove.
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