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«.... la necessità del crimine che grava sull'uomo deliberato ad elevarsi fino alla condizione titanica» - dice Gabriele. - Ma la condizione titanica è quella che appunto manca al Brando; infatti, un «titano» non commetterebbe quei tre volgari delitti, che tutti i dì si consumano dai più oscuri uomini: un titano sa, senz'altro, proporzionare il mezzo al fine, anzi è titano in quanto egli solo può far quello che nessun altro può fare. Gli uomini-titani son pochi: essi sono delle vere eccezioni, sono strumenti dalla Mente o dalla Forza eterna prescelti al compimento di fatti colossali, che altrimenti rimarrebbero incompiuti; uomini titani, per esempio, sono Cesare, Colombo, Napoleone, Garibaldi ed altri siffatti uomini straordinari, ai quali - e ad essi soli - appartiene il diritto di sentirsi, ma non di proclamarsi superuomini. È per ciò che titano ed eroe sono sinonimi. Ma Brando è un turpe malfattore e un vanaglorioso: egli è D'Annunzio stesso che grida ai quattro venti la sua superumanità, fatta di vento rettorico. Chiunque altri, al posto di Brando, potrebbe fare - e anche meno scioccamente di lui -quello che fa lui. E poi, che cosa possono trovare che molto o poco li interessi, gli spettatori nella immaginaria piccola impresa africana del Brando, la quale non è, per esempio, la nazionale conquista della Tripolitania, nè altra simile cosa? Possono essi interessarsi, infiammarsi al desiderio di sapere se il fiume Omo (che essi non hanno mai sentito nominare!
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