E allo Châtelet costoro videro compiersi sotto i loro occhi delle meraviglie, ad esempio, i sette festoni di gigli collocati sulle sette finestre del palazzo del Prefetto, i quali, a vista, si trasformano in sette serafini, mentre Sebastiano danza «lascivamente» sui carboni accesi; videro un sotterraneo trasformarsi in una camera astrologica tra effetti meravigliosi di luce; videro lo accumularsi di tutti gli sforzi del colore e del lusso pagano in forma di fiori e di ghirlande sul corpo del Martire; videro il turchino del cielo vestirsi d'una luce di paradiso, e piovere da quello intensi raggi d'oro in gran copia; videro....
Ora tutto questo non è che del belletto sgargiante sul volto di laida cortigiana, voglio dire, una bella mano di smagliante vernice su di un putrido legno. E la vernice neppure aveva il merito d'essere del D'Annunzio: egli l'aveva solo pagata; meglio, l'aveva pagata la Rubinstein. - La cosa che era e che è sua è immensamente misera, infelice, disgraziata; è un esercizio da scolaretto che fa le sue prime armi in francese. E lo si vede sin dal principio, in quella lunga, vuota e sciocca filastrocca che egli pone in bocca al Nunzio:
«Douces gens, un peu de silence!»
Egli comincia proprio così, trattando da ragazzi discoli e da populace gli eleganti, compassati, inamidati aristocratici che egli aveva convocati nell'ampia sala dello Châtelet! E dire che, quando si levò il sipario, tale era il silenzio che uguale poteva esser quello di una tomba. Egli - nientemeno!
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