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Come sempre, nel periodo di attesa febbrile, il danaro fece prodigî: la Rubinstein snodava largamente i lacci della sua borsa inesauribile, così volendo Gabriele. Gli articoli laudatorî e promettitori di meraviglie mai viste e mai sentite furono un visibilio; cosiffatta réclame non aveva altro scopo che quello di chiamare allo Châtelet il più gran numero di coloro che vivono nel mondo dell'aristocrazia e del denaro. Ma il giorno dopo la prima rappresentazione non pochi giornali parigini e non pochi corrispondenti di giornali esteri posero i punti sugli i.
Max Nordau scrisse alla Wossische Zeitung:
«Non è nè poesia nè arte. È un'enorme corbellatura in cinque parti. Niente azione. San Sebastiano non fa altro che danzare e declamare dannuzianamente e muore di una morte terribilmente parolaja. Non può farsi un'idea della vuota gonfiezza di quest'opera se non chi l'ha vista o letta. I costumi sono arlecchineschi. Si vedono i romani vestiti alla medio-evo! Essi, infatti, copiano le miniature dei manoscritti medievali. Il loro effetto è grottesco. Tutta l'opera non ha che uno scopo, quello di creare una parte parlata per la ballerina Rubinstein.»
E il corrispondente del Berliner Tageblatt:
«È un martirio, non solo per San Sebastiano, ma anche per gli spettatori.»
Eugenio Checchi mandò alla Tribuna (20 maggio 1911):
«I ragazzi delle nostre scuole elementari prima sapevano che il più grande poeta nostro era Dante, che aveva scritto in italiano la Divina Commedia; ora sanno che, dopo Dante, c'è G. D'Annunzio, il quale ha scritto in francese Le Martyre de Saint Sébastien.
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