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      (19) La mia penna, che è una superpenna, sa quello che fa, solo che non si degna spiegarmi il senso di ciò che scrive. «I suoi occhi... - (dico gli occhi di Enotrio) - che erano piccoli e senza bellezza... - (e perciò specchio fedele della sua laidezza interiore) - nella mia memoria si abbelliscono di quel non so che intenso rammarico onde li scorsi aggranditi quando si fissarono in me la prima volta». - Ah! come mi guardava! Oh! come quei piccoli occhi gli sfavillavano e s'ingrandivano e, ad un tempo, si rammaricavano.... Di che? Voi volete sapere di che essi rammaricavano? Credo si rammaricassero della presenza di altri redattori del Fracassa e della Bizantina. Sì, certo, lo sento e posso giurarlo: appena mi ebbe veduto, egli pensò ch'io fossi una giovinetta vestita da giovanetto, tanto allora io ero bello di femminea bellezza...; e, se fossimo stati soli... - Ma voi siete troppo curiosi, ed io vo' castigarvi dicendo che «per un gioco grazioso della sorte... (la mia sorte è sempre graziosa)... io gli sembrai balzare improvviso dal mio Canto novo che egli aveva tra le mani, quasi invertendo la metamorfosi di quei favoleggiati adolescenti che si includevano in un arbusto o in un fiore». Ciò dico perchè allora io era sì bello, sì bello, sì bello, che egli dovette credermi, non già Narciso trasformato in fiore, ma il fiore ridivenuto Narciso. - «Ah! ch'io mi dissolva, e, come Percy Shelley io mi trasmuti sotto questo mare, (qui dove mette fece il Motrone) in qualche cosa di ricco e di strano (per esempio, in chiocciola perlifera, o in un quadrupedato mostro marino).... prima che la Natura vinca in me la volontà indefessa di essere giovane ancora», di essere, cioè, ancora Narciso.


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La Superfemina abruzzese
di Enotrio Ladenarda
Pedone Lauriel Palermo
1914 pagine 253

   





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